Riconoscere i fattori di rischio per prevenire e
ridurre l'incidenza degli eventi critici.
L’individuo è colui che fa entrare dentro di sé una minima parte
dell’oceano di fenomeni che lo circonda. La sua anima […]
è quello spazio, quella membrana filtrante dove qualcosa
di ciò che proviene da fuori, dal regno dell’esteriore,
diventa un oggetto interiore.
Emanuele Trevi, Il viaggio iniziatico
I Libri del Festival della Mente, 2013
Premessa 1: Una cornice generale
Il momento della cura che accade nell’incontro tra chi è portatore di una sofferenza e chi tale sofferenza accoglie, dà significato e profondità al vivere stesso; così ricorda il mito. La cura rende l’umanità tale, attualizza ciò che è umano in noi.
L’operatore sanitario si ritrova, per lunghi tratti della sua vita lavorativa, nel ruolo di chi cura e si prende cura. Quale privilegio, ma quale enorme peso, fardello, talvolta anche croce. Privilegio per le opportunità di crescita personale che l’atto della cura può consentire. Privilegio perché, poter sviluppare la nostra umanità, ci protegge dal non ritrovare o dal perdere noi stessi. Ma, per contrasto, grandi opportunità implicano rischi drammatici, per la difficoltà di adempiere all’impegno etico che la cura presuppone. Talora, l’incontro si declina nelle forme dello scontro. Come tutte le vicende umane, ogni via è possibile e contribuisce a disegnare la complessità e la discordanza delle relazioni di cura immaginabili: fino a giungere ad un possibile apice di tale contrasto, rappresentato dalla relazione di chi accompagna il proprio paziente verso l’eutanasia.
“E’ difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue” scrive l’imperatore Adriano all’amico Marco, passo ben noto e, ormai, classico. Tuttavia, l’atto autentico del curare e del prendersi cura, non può che realizzarsi se non in quella coniunctio oppositorum che nasce dalla unione, dalla sintesi tra uno sguardo oggettivante e uno sguardo che non perde, al tempo stesso, la capacità di vedere, di percepire la soggettività dell’altro sofferente. L’altro divenuto cittadino di quel paese straniero e oscuro che è il luogo della malattia, che diventa davvero difficile attraversare nella solitudine.
La cura, quindi, come cammino con l’altro, per non perderci, per non perdersi. Non di meno, infinite sono le possibilità del declinarsi della relazione di cura: gli scontri non nascono solo dal calare uno sguardo oggettivante sulla vicenda umana dell’altro, ma anche da una soggettività che reagisce alla propria sofferenza in modo istintivo, non riflessivo, non consapevole, talvolta, così da ostacolare la costruzione di quell’alleanza, unica possibilità per il realizzarsi della relazione di cura.
Premessa 2: l’attualità
È spesso la cronaca che ci parla degli scontri concreti, che hanno come teatro i pronto soccorso. Scontri favoriti dall’avvento della pandemia, dalla fatica cumulata dagli operatori sanitari, precipitati, infine, dalla, sempre più grave, carenza di risorse.
Le note di cronaca danno voce agli eventi più evidenti.
La fatica, il burnout oscurano le possibilità di riflessione e lasciano spazio ai vissuti più drammatici, disperati anche. Condizioni demotivanti, che favoriscono rinunce e abbandoni. La relazione di cura, il cogliere, l’accogliere la sofferenza dell’altro, lo smarrimento che ne deriva richiedono un livello di consapevolezza non comune. Sono capacità e competenze che vanno costantemente coltivate e accresciute, attraverso un ininterrotto processo di ascolto di sé, di confronto e revisione del proprio operare
Premessa 3: la relazione di cura in psichiatria
Tormentata la storia della relazione di cura in ambito psichiatrico, certamente assente ai suoi inizi e per buona parte del XIX° secolo. Le cose iniziano a smuoversi con la scoperta dell’inconscio (il riconoscimento della sua esistenza), con i contributi della psicologia del profondo, nelle sue varie forme e declinazioni. Aggiungiamo gli studi di Jaspers, Biswanger, Minkowski. E ancora di Ronald Laing, Erving Goffman, Franco Basaglia, David Cooper, Gregory Bateson, Thomas Szasz. Talché ciò che appariva privo di senso e significato diviene eloquente, affinando le capacità di ascolto e, soprattutto, riconoscendo la soggettività nella sofferenza dell’altro.
Infinite sono le testimonianze che evidenziano e enfatizzano una tale lenta, quanto inesorabile rivoluzionaria trasformazione. Tra le tante, possiamo ricordare la storia di una coraggiosa psichiatra brasiliana, Nise Da Silveira che, ispirata dalle teorie di Carl Gustav Jung, trasformò, dalla fine degli anni ’40 del secolo scorso, la dura e stolida vita da reclusi dei pazienti psichiatrici, custoditi presso il Centro Psiquiátrico do Engenho de Dentro a Rio de Janeiro. Destinata al reparto di terapia occupazionale, reparto disprezzato dagli altri colleghi, e sostanzialmente dimenticato dalla amministrazione, qui ebbe la possibilità di accorgersi che pazienti profondamente regrediti, abbrutiti dall’abbandono a stessi, e anche violenti celavano in sé, scintille di vita e di creatività e che, come Jung affermava nei suoi scritti, l’inconscio poteva prendere forma attraverso le loro attività creative. La storia è emblematica di un cambiamento, un cambiamento rispetto al quale non si può più tornare indietro, ma che certamente va custodito, difeso, mantenuto ed esteso.
I diritti al riconoscimento della propria individualità e soggettività non sono mai qualcosa di dato e stabilito, ma rappresentano un territorio in costante espansione, in accordo con il divenire dell’umanità e, al tempo stesso, sono un territorio la cui conquista non è mai definitiva, ma richiede un continuo monitoraggio, una presenza attenta e duratura.
Il divenire della relazione di cura
È naturale che da queste premesse derivi una realtà della relazione di cura complessa, articolata, contraddittoria: incontri, scontri, fallimenti, tentativi e ancora insuccessi. Forse l’atteggiamento più frequente è il cercare di non pensare a ciò che accade nell’incontro, in un procedere cieco e sordo, con la falsa speranza di vincere la stanchezza, la fatica, prodotta dal gravoso, continuo ripetersi della vita, nella sofferenza e nel disagio.
Gli scontri possono nascere dalle richieste impossibili di chi soffre o di chi sta loro vicino, dalla paura che abita il paziente e i familiari (ma anche chi cura), dall’idealizzazione che anticipa la delusione. Ma possono derivare anche dal rifiuto di reggere un peso non previsto, né immaginato.
Un compito per il quale non si è mai stati preparati nel corso di una formazione focalizzata piuttosto sugli aspetti tecnici, e che ha scotomizzato o affrontato con superficialità quanto implicito e custodito nella relazione di cura.
Gli aspetti oscuri della relazione in psichiatria: il paziente aggressivo in reparto
Partiamo da una visione oggettiva, alla ricerca dei dati. Numerose revisioni della letteratura recente ci possono aiutare a cogliere l’entità del problema.
Come sempre il primo ostacolo nella ricerca è rappresentato dalla definizione dell’oggetto di studio. Cosa si intende per aggressività in psichiatria?
Il termine aggressività è ambiguo. Esistono molteplici interpretazioni, e spesso è usato in modo intercambiabile con agitazione e violenza. L’agitazione è definita nel DSM-5 come “uno stato di eccessiva attività psicomotoria accompagnata da aumento della tensione e irritabilità cui conseguono comportamenti non produttivi e ripetitivi”. Generalmente è vista come il precursore dell’aggressività.
L’OMS definisce aggressività e violenza in modo simile: “l’intenzionale uso di forza o potere fisico, minacciato o effettivo, contro se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che si traduce o ha un’alta probabilità di concludersi in lesioni, morte, danno psicologico, alterazioni dello sviluppo o deprivazione.
Le linee guida del British National Institute for Health and Care Excellence (NICE) definiscono l’aggressività come: “una gamma di comportamenti o azioni che possono causare danni, ferite o lesioni a un’altra persona, indipendentemente dal fatto che la violenza o l’aggressività siano espresse fisicamente o verbalmente, il danno fisico viene compiuto o l’intenzione è chiara”. In queste definizioni l’agitazione, l’aggressività e la violenza possono essere intese come un continuum di severità, in cui l’agitazione si evolve in aggressività e, in fine nella violenza. La violenza differisce dall’aggressività per la gravità e l’intenzionalità del comportamento.
La letteratura, come detto, è piuttosto ricca, il che evidenzia la diffusione e la gravità del problema.
I dati relativi all’analisi della prevalenza del comportamento aggressivo nei reparti psichiatrici sono piuttosto variabili. Gli studi evidenziano una forbice molto ampia compresa tra il 7,5% e il 75,9%. In una metanalisi del 2021 la percentuale media ponderata di pazienti coinvolti nell’aggressione è del 23%.
I fattori correlati al comportamento aggressivo si possono suddividere in tre dimensioni relative ai pazienti, all’équipe terapeutica e alle caratteristiche del reparto.
Per quanto attiene ai pazienti i fattori di rischio sono legati alla diagnosi di disturbo psicotico o disturbo bipolare, all’abuso di sostanze, ad una precedente storia di aggressività, alla giovane età.
I fattori di rischio del personale includono l’appartenenza al genere maschile, all’essere non qualificato o ad avere un contratto temporaneo, alla condizione di affaticamento da lavoro, all’insoddisfazione per il lavoro, al burn-out e ad una scarsa qualità dell’interazione tra pazienti e personale.
Tra i fattori di protezione del personale si evidenzia il buon funzionamento del team, una buona leadership e il coinvolgimento nelle decisioni terapeutiche.
I fattori di rischio di reparto più significativi sono un’occupazione dei letti più alta, luoghi affollati nel reparto, un ambiente non sicuro, un ambiente restrittivo, mancanza di attività durante il giorno, fumo e mancanza di privacy.