Intervento al seminario su:
Rispetto dei diritti dell’indagato, dell’imputato e della persona condannata
Una riforma liberale della giustizia e le battaglie per i diritti di libertà
TORINO LIBERAL FORUM, 17 marzo 2023
Associare salute mentale e carcere è in tutta evidenza un ossimoro. Si tratta di due opposti che – guardando ai dati epidemiologici – non possono che divergere.
La letteratura, sia a livello nazionale che internazionale, evidenzia come i problemi psichici rappresentino le malattie più diffuse negli istituti penitenziari. In un rilevamento del 2016 negli USA almeno metà della popolazione carceraria presentava problemi di salute mentale. In ogni caso, i dati sono univoci nell’evidenziare una sproporzione del livello di disagio psichico tra la popolazione generale e la popolazione carceraria. Nel rapporto dell’OMS del 2022 relativo alla salute nelle carceri in Europa [lo studio ha riguardato 53 stati, una popolazione di 613 497 detenuti, dati del 2020] è emerso che i disturbi mentali rappresentano la condizione più diffusa tra i detenuti pari al 32,8% della popolazione carceraria. I dati in Italia vanno nella stessa direzione. I più recenti individuano una incidenza pari al 41%. In un rilevamento dell’ARS Toscana del 2021 [I risultati della Va rilevazione ARS] su 1.744 persone sottoposte a visita medica, 601 presentavano almeno un disturbo psichiatrico: il 34,5% della popolazione esaminata. La situazione è divenuta più complessa dopo la pandemia. I dati raccolti dalla commissione carceri della Regione Lombardia dal 2019 evidenziano un aumento delle patologie psichiatriche del 17% rispetto al periodo antecedente la pandemia.
Le recenti modifiche del regolamento penitenziario hanno valorizzato il ruolo del Servizio Sanitario Nazionale all’interno degli istituti, con l’intento di garantire ai detenuti prestazioni tempestive, continuità dei trattamenti sanitari in corso, prevedendo che il servizio sia rispondente alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati.
Nel 2018 è stato adeguato l’ordinamento penitenziario ai principi di cui al d.lgs. 230/1999 che recepiva quanto previsto dall’articolo 5, della legge 30 novembre 1998, n. 419 riguardo al riordino della medicina penitenziaria. La finalità era quella di garantire lo stesso livello assistenziale all’interno delle carceri.
Hans Henri P. Kluge, direttore regionale dell’OMS/Europa dal 2020 afferma:
<<Lo stato di detenzione non dovrebbe mai diventare una condanna al peggioramento della salute. Tutti i cittadini hanno diritto a un’assistenza sanitaria di buona qualità indipendentemente dal loro status legale>>.
La domanda è: ci sono segnali che ci si stia muovendo in questa direzione in modo efficace ed efficiente? Le condizioni dei detenuti stanno davvero migliorando? In realtà i dati sono profondamente sconfortanti. Prendiamo in considerazione gli eventi critici, che possiamo considerare la punta di un iceberg. Rientrano a pieno titolo tra gli eventi critici i suicidi, i tentativi di suicidio, e ancora i comportamenti autolesionistici. Mi soffermerò solo sull’aspetto del suicidio. Tuttavia è necessaria una riflessione in via preliminare. Tali agiti, suicidio e gravi tentativi di suicidio da un lato, e comportamenti autolesivi dall’altro, sono senza dubbio i segnali più “visibili” del disagio psichico in carcere, ma rappresentano risposte del tutto diverse alla sofferenza psichica.
Ma veniamo al suicidio in Italia. I dati sono impietosi. Nel 2022 si sono suicidate 84 persone all’interno delle carceri italiane: 78 uomini e 5 donne – ricordo che le donne rappresentano il 5% delle persone detenute nelle carceri. Nel 2021 i suicidi sono stati 58 e 51 nel 2020. Dieci anni fa, quando la popolazione carceraria era più numerosa – 66.5278 contro 54.841 – si suicidarono 60 detenuti, 24 in meno rispetto all’anno scorso. A febbraio 2023 si contano già sette suicidi. Naturalmente i dati espressi in questo modo ci dicono poco, se non per il loro pur drammatico valore assoluto. Tuttavia è importante cercare dati che confrontino diversi paesi tra loro e che comparino i tassi di suicidio con la popolazione generale. Uno studio condotto dal centro per la ricerca sul suicidio e dal dipartimento di psichiatria dell’università di Oxford nel 2017, ha raccolto i dati di 24 paesi europei e del Nord America tra il 2011 e 2014, relativi ai suicidi avvenuti tra detenuti.
I dati evidenziano che se confrontiamo i tassi di suicidio nella carceri, con la popolazione generale in Italia, questi erano nel 2014, 12 volte maggiori. Se facciamo riferimento alla popolazione femminile il tasso è 20 volte superiore. Certo oggi i dati non possono che essere peggiorati. Numerosi sono gli studi per individuare i fattori di rischio per prevenire gli atti suicidari. I fattori di rischio sono sia endogeni quindi legati a fattori traumatici, disturbi psichiatrici, e tratti patologici di personalità, sia legati a fattori di stress ambientale. Per altro alcuni dati sono contraddittori. Ad esempio il sovraffollamento talvolta può essere un fattore di protezione. Una metanalisi del 2022 (Favril et al.) individua tra i fattori ambientali: condizioni di isolamento, essere oggetto di una qualche forma di aggressione o bullismo, scarso sostegno sociale, essere incorsi in infrazioni disciplinari, mancanza di attività. I fattori individuali più legati al rischio di suicidio sono: ideazione suicidaria, disturbi psichiatrici intercorsi nel periodo di carcerazione, precedenti tentativi di suicidio e comportamenti autolesionistici
I dati ci dicono che le carceri sono tutt’altro che luoghi sicuri e al di là delle normative, siamo ben lontani dal proteggere i detenuti dalla sofferenza e dal disagio psichico. È possibile rendere le carceri luoghi migliori? La questione va oltre gli aspetti strettamente sanitari. Anche se, rimanendo fermi a quest’ultimi c’è da chiedersi come un SSN già in affanno nel seguire i pazienti psichiatrici sul territorio possa seguire al meglio la popolazione carceraria che, come abbiamo visto, ha esigenze ancora maggiori. Come è possibile dare assistenza specialistica e psicologica senza personale adeguato? E come è possibile garantire un assistenza uniforme a livello nazionale con un sistema sanitario penalizzato dalle differenze di efficienza e di risorse regionali. Per altro gli studi segnalano che non tutto il processo di umanizzazione delle carceri deve passare attraverso la medicalizzazione. Anzi quello che è più importante è migliorare la qualità delle relazioni all’interno del mondo carcerario. Le relazioni tra personale e detenuti sono fondamentali.
I detenuti hanno bisogno di sentirsi supportati, sentono la necessità di costruire rapporti di fiducia e desiderano di poter confidarsi e fidarsi del personale. Spesso i detenuti riferiscono di non vedere riconosciute le loro angosce e ansie, le difficoltà vengono banalizzate.
L’arrivo, il rilascio e il trasferimento sono riferiti come i momenti più vulnerabili. L’inesperienza del personale e la mancanza di formazione sulla salute mentale sono individuate come fattori significativi nell’aumento del rischio di disagio tra i detenuti. I servizi di salute mentale in carcere sono visti principalmente dai detenuti come meri fornitori di farmaci.
Cosa manca nei dati che abbiamo sin qui visto? Mancano i dati relativi alla polizia penitenziaria, non sappiamo nulla relativamente al livello di benessere o malessere degli agenti. Gli studi sono scarsi e quei pochi, in genere, evidenziano alti livelli di burnout.
Si iniziano a leggere oggi le prime ricerche su percorsi formativi per sviluppare, ad esempio, le cosiddette soft skill tra gli operatori penitenziari: l’Intelligenza Emotiva, le capacità di gestione dello stress, accrescere le capacità di resilienza, le capacità di ascolto e di empatia. Apetti non facili da realizzare per la problematica contraddizione intrinseca al ruolo. Non si tratta quindi solo di rinnovare le strutture, ma di formare in modo adeguato le persone che operano dentro le strutture, e questa ovviamente è una responsabilità politica.
L’obiettivo è migliorare la qualità delle relazioni all’interno del mondo carcerario. È una sfida certo, ma non impossibile. È l’unica via per realizzare delle carceri degne di uno stato democratico. Se l’obiettivo è rendere più umane le carceri, il cambiamento non può che passare dagli uomini.
Brough, P., Biggs, A., Brandon, B., & Follette, V. (2021). Occupational Stress and Traumatic Stress. In J. Brown & M. Horvath (Eds.), The Cambridge Handbook of Forensic Psychology (Cambridge Handbooks in Psychology, pp. 697-715). Cambridge: Cambridge University Press. doi:10.1017/9781108848916.043
Caterina Gozzoli, Chiara D’Angelo, Giancarlo Tamanza. (2018) Training And Resistance to Change: Work with a Group of Prison Guards. World Futures 74:6, pages 426-449.