Competenze per affrontare il cambiamento

Sbagliate, amico mio;
oh, io lo conosco bene; è matematico e poeta.
Come poeta e matematico deve aver ragionato giusto;
come semplice matematico non avrebbe ragionato
affatto e sarebbe caduto così nelle trappole del prefetto.

Edgar Allan Poe. La lettera rubata.

.

Premessa

Un progetto nasce dall’incontro di persone che hanno già in mente o intuiscono un qualche obiettivo e che, consapevoli della impossibilità di realizzarlo in solitudine, cercano condivisioni e collaborazioni, là dove ritengono, per esperienza, di poterle trovare. Nasce anche dalle intuizioni, dalle differenti sensibilità individuali, dagli eventi contingenti, dalla cultura in cui i diversi protagonisti sono immersi.
Può avvenire così che si sia incuriositi da possibili differenze semantiche, e che tali differenze suscitino interrogativi, riflessioni. Percepiamo allora come nel linguaggio dimorino significati e sfumature di senso, intriganti, seducenti, talora illuminanti, talvolta confondenti. O ancora, c’è chi avverte, scorge la necessità di prepararsi a cambiamenti inevitabili, quanto immanenti, anche se non imminenti. Parole quali cambiamento (1), rinnovamento, svolta appartengono alla quotidianità, così come le inevitabili sfide che sottendono e a cui richiamano. In quanto parole ormai usuali possono perdere capacità evocativa, essere consumate. Eppure Eraclito più di duemila anni fa intuiva la continua evoluzione e trasformazione in cui è immerso l’uomo. Una realtà che non può essere ignorata a lungo, e può suscitare domande: si sarà in grado di affrontare i cambiamenti richiesti, ma soprattutto si sarà in grado di prepararsi a tali trasformazioni, o l’essere immersi nel flusso del cambiamento impedirà di esserne pienamente consapevoli? Talvolta solo la distanza imposta dal tempo consente una re-visione informata degli eventi. Esistono cambiamenti epocali, e cambiamenti individuali. Alcuni immersi nel corso della vita, possono trovarsi dinnanzi a svolte non attese, né immaginate forse illusi “che non si cambi[a] mai vita”(2), altri restano in attesa di un cambiamento che non hanno percepito (3).
Le imprese rappresentano realtà che, non meno di altre, devono confrontarsi con cambiamenti che impongono trasformazioni radicali, profonde: si pensi all’avvento delle “tecnologie esponenziali”(4), alla transizione dalla globalizzazione alla glocalizzazione, all’attuazione di processi green . Tuttavia, non si tratta solo di misurarsi con i cambiamenti tecnologici o geopolitici che, in breve, mutano scenari che parevano consolidati da e dal tempo; la società con gli umori, i sentimenti, le attese, le aspettative contraddittorie e cangianti attraversa, penetra le imprese attraverso gli uomini che le costruiscono e costituiscono. Sono quegli stessi uomini che vivono il cambiamento, che sono immersi in esso e al tempo stesso devono riconoscerlo, adattarsi e cercare di gestirlo e governarlo, o almeno di guidare le aziende e gli uomini che le compongono attraverso i percorsi che lo spirito del tempo impone. Quanti sanno, come il barone di Münchausen, tirarsi su per il codino, per non naufragare, travolti (5)?

Il cervello, le neuroscienze e il cambiamento

La psicologia sociale, la psicologia in genere ci insegnano come gli umani non amino il cambiamento. Fanno piuttosto resistenza e spesso guardano al passato come ad una mitica età dell’oro. Verosimilmente perché per il nostro cervello ogni cambiamento richiede energia, e gli studi ci dicono molta energia (6). Ancora, perché il nostro cervello si è evoluto nell’arco di migliaia di anni, quando l’ambiente circostante non cambiava mai o comunque mutava in tempi misurati dalle ere geologiche. Così oggi fatichiamo a stare dietro ai ritmi che la società ci impone, ai mutamenti che incombono. È forse anche per questo che il costo che paghiamo sono gli attuali quadri ansiosi e depressivi che hanno raggiunto una diffusione epidemica nei paesi sviluppati (7). Eppure le neuroscienze hanno evidenziato le grandi potenzialità di adattamento del nostro cervello, capacità che è definita plasticità cerebrale, cioè la possibilità di ricablaggio continua, di riorganizzarsi del nostro cervello, che non solo consente un processo di ininterrotto adattamento, ma anche di riparazione dei danni che possono occorrere nel tempo. Si tratta quindi di comprendere quali possano essere le condizioni migliori per facilitare i processi di adattamento e superare l’inerzia e le resistenze comportamentali.

L’individuo e il gruppo

Il primo grande cambiamento che l’umanità ha affrontato è avvenuto più di cinquemila anni fa quando, con l’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento, le popolazioni sono divenute stanziali. È stata l’origine dei nuclei che hanno costituito il germe delle civiltà e delle città. Le interazioni e le relazioni sono aumentate prima lentamente, poi più velocemente, ma sempre in maniera lineare. Fino alle modalità straordinariamente esponenziali dei nostri giorni. Oggi cosa evidenzia la fortuna dei social media? Qual è stata la grande intuizione di chi ha dato vita a Google, Facebook etc… ? Siamo animali sociali, desideriamo e cerchiamo l’interazione reciproca (certo con gradualità diverse dagli uni agli altri, si pensi solo alle diverse modalità relazionali tra introversi e estroversi); desideriamo essere premiati e gratificati. Anche un piccolo like esercita un enorme potere seduttivo, rendendoci più disponibili verso chi ha apprezzato o condiviso un nostro post. Beh certo, i neuroscienziati ci direbbero che è solo una questione di dopamina ed ossitocina. Ma questo non modifica l’esperienza soggettiva che sperimentiamo, e che ci porta ad insistere nelle interazioni.
Come tutto ciò che riguarda l’uomo ogni innovazione non è mai positiva o negativa in assoluto, ma costella entrambi gli aspetti. Pensiamo ad esempio ai social media: nascono dal desiderio di interazione, di relazione, di scambiare opinioni, dall’evitare la solitudine, ma possono portare addirittura a giovani che non escono più dalla loro stanza, determinando così il massimo del ritiro. In Italia, al momento, sono sessantacinquemila i giovani che rinunciano alla socialità reale, per rifugiarsi in quella virtuale (8). Eppure anche questo rifiuto della realtà è il frutto di un cambiamento che spaventa e non viene accettato dalle nuove generazioni, che si sentono schiacciate da modelli troppo competitivi e performanti. Ancora, può accadere che soggetti che un tempo avrebbero richiesto l’aiuto di uno psicoterapeuta, o anche di uno psichiatra per affrontare i problemi legati alla agorafobia, o alla fobia sociale, che avrebbero impedito loro di lavorare oggi, con l’avvento dello smart working, possono ulteriormente procrastinare la necessità di confrontarsi con tali difficoltà. È positivo, è negativo? Dipende dai punti di osservazione. Si aprono sempre nuove possibilità e vie per affrontare i problemi, o allontanarli e rinviarli. Ecco un altro fattore che contribuisce a rendere la realtà in cui dobbiamo muoverci e orientarci sempre più complessa, articolata, e intricata. Il divenire della conoscenza apre nuove frontiere, possibilità, che pongono inediti interrogativi e dilemmi: si pensi, tra l’altro, al tema della fluidità di genere e agli infiniti dibattiti che ha aperto e che ha alimentato. Questioni che richiedono nuovi strumenti di pensiero, flessibilità, apertura mentale per consentire un riadattamento sia a livello sociale, sia familiare costante e continuo. Rivediamo così riattivarsi l’eterna dinamica, questa sì immutabile, di forze sociali che sono aperte al cambiamento, e altre che frenano, dimentiche che la storia insegna come lo spirito del tempo non possa essere fermato o impedito.
L’evoluzione, in ogni caso, è nella direzione di sempre più intense e complesse interazioni. Interazioni tra individui, all’interno dei gruppi e tra gruppi. Le organizzazioni stanno diventando più piatte (altro aspetto del cambiamento e dell’evoluzione) e strutturate con meno livelli di gestione. Questo tipo di progettazione organizzativa aumenta la necessità del lavoro di squadra. In un articolo ampiamente citato della Harvard Business Review, Rob Cross, Reb Rebele e Adam Grant (9) hanno riferito che il tempo trascorso in attività di collaborazione è aumentato del 50%. In molte aziende le persone trascorrevano circa l’80% del loro tempo in riunioni o rispondendo alle richieste dei colleghi. Guardando al futuro, in uno studio di Deloitte su oltre 7.000 aziende di oltre 130 paesi, i leader aziendali hanno affermato di aspettarsi di utilizzare i team ancora più frequentemente come strategia di progettazione organizzativa.
Scott Tannenbaum e Eduardo Salas (10) affermano:
<<Nel 2020, a causa della pandemia di coronavirus, le organizzazioni hanno accresciuto l’uso della tecnologia per interagire e aumentato il tempo trascorso nella collaborazione a distanza. Pensiamo che le persone che in precedenza lavoravano da sole ora parteciperanno a riunioni on line sempre più frequentemente: e le riunioni in remoto diventeranno la norma. In poche parole, ci saranno meno opportunità di lavorare da soli>>.
Sebbene i vantaggi della collaborazione siano ben documentati, i costi spesso non vengono riconosciuti. Quando le richieste di collaborazione sono troppo elevate o non sono distribuite in modo uniforme all’interno dell’organizzazione, ne derivano stress, blocchi dei flussi di lavoro e burnout. Rob Cross, Reb Rebele e Adam Grant concludevano l’articolo  del 2016 affermando:
<<I leader devono imparare a gestire meglio la collaborazione nelle loro aziende mappando domanda e offerta, eliminando o ridistribuendo il lavoro e incentivando le persone a collaborare in modo più efficiente>>.
 

Come migliorare il lavoro di gruppo?

Sviluppare l’Intelligenza Emotiva e l’Intelligenza Emotiva di Gruppo

 “L’enfer, c’est les autres” ricorda Sartre e se, a questa affermazione, aggiungiamo Pirandello quando fa dire al Padre in Sei personaggi in cerca d’autore “noi crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai”, il quadro si fa drammatico. L’evoluzione ci dice che la cooperazione, l’altruismo sono fondamentali per lo sviluppo dell’umanità, ma le relazioni sono faticose, difficili, talvolta pericolose. Si moltiplicano le richieste di lavorare in gruppo, ma – come abbiamo visto – possono affaticarci, e non solo. Le interazioni nei team moltiplicano le occasioni di fraintendimenti, generando tensioni e stati emotivi che ostacolano il lavoro di gruppo. Siamo al paradosso, i gruppi possono essere più creativi dei singoli, ma spesso le dinamiche emotive ne condizionano notevolmente l’efficacia, la produttività.
John Medina nel suo “Brain Rules for Work: the science of thinking smarter in the office and at home” individua nella capacità di creare un clima di fiducia uno degli aspetti cardine per dare vita ad un gruppo coeso e produttivo. Il neurobiologo parla della necessità di un ambiente psicologicamente sicuro. L’ambiente sicuro ricorda lo stile di attaccamento sicuro di cui parla John Bowlby (11) e che è alla base di un sano sviluppo del bambino e dell’adulto.
Ma è possibile trovare altri collegamenti con le più recenti teorie psicologiche e quanto proposto da John Medina. Medina fa riferimento alla necessità che nei gruppi ci siano le persone “giuste”, perché questi funzionino. Come possiamo intendere il concetto di persone “giuste”, senza cadere in interpretazioni “politicamente scorrette”? Possiamo riferirci a persone adeguatamente formate, mature, consapevoli. Persone che abbiano compiuto un adeguato percorso di riflessione e maturazione individuale. Medina fa riferimento a persone che abbiano una solida teoria della mente (12), sappiano cioè essere in grado di comprendere i segnali verbali e non verbali nei processi di interazione sociale, essere empatici, assumere i punti di vista degli altri, saper ascoltare e saper prendere decisioni.
In ultima analisi Medina descrive persone che, se facciamo riferimento agli studi di Mayer e Salovey (13) ad esempio, si potrebbe concludere che hanno una elevata Intelligenza Emotiva, cioè hanno la capacità di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, sanno gestirle e regolarle. Sviluppare l’Intelligenza Emotiva equivale a favorire un processo di crescita, e sviluppo individuale, maturazione e consapevolezza. È un processo evolutivo noto fin dai tempi di Socrate. Nei secoli è stato indicato in vari modi dalla religione, dalla filosofia, dalla psicologia, e ancora in modi differenti dalle diverse correnti psicologiche. Si va così dalla psicologia del profondo, al più recente cognitivismo. C.G. Jung parla di processo individuativo, il processo di crescita individuale che porta alla scoperta e alla realizzazione del Sé, alla totalità dell’individuo. Wilfred Bion ha sviluppato la sua teoria sulla crescita individuale attraverso il concetto di “lavoro psichico”. Secondo Bion, il processo di crescita individuale avviene attraverso l’esperienza di una serie di stati emotivi contrastanti, come la frustrazione, l’ansia e la depressione, che possono essere superati attraverso l’elaborazione e la comprensione di queste emozioni. Questo processo è guidato dall’impulso naturale dell’individuo verso la conoscenza e la comprensione. James Hillman, in continuità con il pensiero di Jung, ha sviluppato una visione della crescita individuale come un processo di ampliamento della propria anima, intesa come principio vitale e immateriale che dà vita alla nostra esistenza interiore. “Fare anima” è il processo di trasformazione degli eventi, da meri accadimenti esterni, in esperienze interiori e profonde. Arriviamo ai sette modelli individuati da George Vaillant (14) che collega la salute mentale e il benessere a diversi modelli di crescita individuale, muovendo dal presupposto che:
<<A differenza di altri organi del corpo che si sono evoluti per rimanere gli stessi o deteriorarsi dopo la pubertà, il cervello umano continua ad evolversi nell’età adulta. È più probabile che i polmoni e i reni di un bambino di dieci anni riflettano una funzione ottimale rispetto a quelli di un uomo di sessant’anni, ma ciò non è vero per il loro sistema nervoso centrale. In una certa misura, quindi, la salute mentale dell’adulto riflette un processo continuo di dispiegamento maturativo e di progressiva mielinizzazione cerebrale nella sesta decade. Studi prospettici rivelano che gli individui sono meno depressi e mostrano una maggiore modulazione emotiva all’età di 70 anni rispetto all’età di 30>>
È il grande tema del confronto tra IQ e EQ, il primo si riduce nel corso degli anni, mentre il secondo può svilupparsi con l’età e l’esperienza, legato ad un continuo processo di sviluppo delle connessioni sinaptiche a livello dei lobi frontali. Naturalmente si tratta di tendenze generali, non di regole  valide per ogni singolo individuo.
 

Intelligenza emotiva di gruppo

Vanessa Urch Druskat (15) ha definito i gruppi di lavoro degli “incubatori emotivi”. Le emozioni sono onnipresenti: generate mentre i membri del team lavorano insieme, e influiscono sui processi e sull’efficacia del team. È possibile che i team possano apprendere a gestire le emozioni in modo che supportino, piuttosto che ostacolare, l’efficacia della squadra? La risposta è affermativa, e si muove nella direzione di favorire quel processo di alfabetizzazione emotiva che è sotteso alla teoria dell’Intelligenza emotiva e al suo sviluppo.
La Druskat ha introdotto la teoria di Intelligenza Emotiva di Gruppo (IEG). L’intelligenza emotiva in un contesto di gruppo si riferisce alla capacità del gruppo di percepire, comprendere e gestire le emozioni collettivamente.
I gruppi con un’elevata intelligenza emotiva tendono ad avere un’atmosfera positiva e solidale, in cui le persone si sentono apprezzate, comprese e rispettate. Sono maggiormente in grado di comunicare e collaborare in modo efficace, gestire i conflitti e lavorare per obiettivi comuni. Ci sono diversi fattori che contribuiscono all’intelligenza emotiva di un gruppo, tra cui:

  • Consapevolezza delle emozioni: i membri del gruppo devono essere consapevoli delle proprie emozioni, così come delle emozioni degli altri. Ciò include la capacità di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni in modo sano e costruttivo.
  • Empatia: il gruppo dovrebbe essere in grado di comprendere e relazionarsi con le emozioni degli altri, anche se non condividono la stessa esperienza.
  • Comunicazione efficace: il gruppo dovrebbe essere in grado di comunicare le proprie emozioni e bisogni in modo chiaro ed efficace, senza ricorrere a comportamenti difensivi o aggressivi.
  • Flessibilità: il gruppo dovrebbe essere in grado di adattarsi ai cambiamenti del clima emotivo e rispondere in modo appropriato a nuove situazioni e sfide.
  • Atteggiamento positivo: il gruppo dovrebbe avere una visione positiva e ottimista, concentrandosi sulle soluzioni piuttosto che sui problemi.

L’intelligenza emotiva di un gruppo può avere un impatto significativo sulle sue prestazioni, produttività e benessere generale. Sviluppando e coltivando l’intelligenza emotiva nel gruppo, i membri possono lavorare insieme in modo più efficace, costruire relazioni più forti e ottenere un maggiore successo
L’obiettivo è quindi quello di consentire la realizzazione di un clima all’interno del gruppo che consenta di vivere e condividere un senso di appartenenza, sicurezza e fiducia reciproche. È l’unica strada per dare vita a gruppi efficaci, efficienti, che permettano il mantenimento di un senso di benessere e della salute mentale.
Come ci si è accorti che gli inquinanti chimici intossicano e danneggiano il corpo a vari livelli e vanno eliminati dagli ambienti di lavoro, esistono anche inquinanti emotivi, non meno tossici e dannosi, che vanno riconosciuti e rimossi (16)

Riferimenti bibliografici

1) Kotter, John P. Leading change. Harvard business press, 2012.
2) Cfr. Camus, Albert,  Lo straniero. Tascabili Bompiani, 1987, p. 42.
3) Buzzati, Dino. Il deserto dei Tartari. Mondadori, 1949 (3).
4) Baets, Walter. “PRME Principle Three, 15 Years Later: How Exponential Technologies Can Enhance the Quality of Impactful and Meaningful Business Education.” The Future of Responsible Management Education: University Leadership and the Digital Transformation Challenge. Cham: Springer International Publishing, 2023. 277-297.
5)Watzlawick, Paul. Il codino del barone di Münchhausen: Ovvero: psicoterapia e realtà. Feltrinelli Editore, 2018.
6) Medina, John. Il cervello: istruzioni per l’uso. Bollati Boringhieri, 2021.
8) https://www.iss.it/ Comunicato Stampa N°23/2023 Dal cibo ai social, quasi 2 milioni di adolescenti della ‘Generazione Z’ a rischio dipendenze comportamentali
9) Cross, R. Rebele, R. and  Grant, A. (2016). Collaborative overload. Harvard Business Review.
10) Tannenbaum, S. and Salas, E. (2020), TEAMWORK MYTHS: WHAT LEADERS NEED TO KNOW. Leader to Leader, 2020: 58-64. https://doi.org/10.1002/ltl.20518
11) Cfr Bowlby, John. A secure base: Parent-child attachment and healthy human development. Basic books, 2008.
12) Baron-Cohen, Simon, Helen Tager-Flusberg, and Michael Lombardo, eds. Understanding other minds: Perspectives from developmental social neuroscience. Oxford university press, 2013.
13) Salovey, P., & Mayer, J. D. (1990). Emotional intelligence. Imagination, Cognition and Personality, 9, 185-211 
14) Vaillant, George E. Positive mental health: is there a cross-cultural definition?. World Psychiatry 11.2 (2012): 93-99.
15) Druskat, Vanessa Urch, and Steven B. Wolff. Building the emotional intelligence of groups. Harvard business review 79.3 (2001): 80-91.

Druskat, Vanessa Urch, Gerald Mount, and Fabio Sala. Linking emotional intelligence and performance at work: Current research evidence with individuals and groups. Psychology Press, 2013.
16) Goleman, Daniel. Lavorare con intelligenza emotiva. Come inventare un nuovo rapporto con il lavoro, Rizzoli, 2000.
 
Verified by MonsterInsights